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Siamo tutti un pò antichi greci

by Sonia Bergamasco  – la Repubblica, Robinson – 27 May 2018

Ogni anno i cittadini si raccoglievano nei teatri per ritrovare sé stessi nelle storie e nel canto.

Il rito oggi è lo stesso: peccato solo per i bilanci

 

Festival. Estraggo dalla parola il cuore e leggo: festa. Festa come attesa e preparazione ma anche come un tempo teso e raccolto nell’arco dell’anno teatrale. Moto a luogo e rito che si rinnova. L’offerta di un festival differisce ( o dovrebbe differire) dalla programmazione teatrale e musicale “feriale” in quanto proposta di uno sguardo imprevisto, eccedente. Collettore di idee e propulsore di energie nuove. Un festival non dovrebbe essere quindi solo “il meglio di”. Quello, spesso, si affaccia già nell’offerta dei programmi dei teatri maggiori e anche nelle realtà più raccolte e tenaci della scena italiana. Nella mia esperienza di lavoro, l’occasione di un festival è stata preziosa quando è diventata un luogo di sperimentazione espressiva. Un momento di disequilibrio che ti conduce alla prova dal vero, per dare finalmente forma a un’idea artistica colta sul nascere. La possibilità di fruire di un tempo in cui ci si prende cura con delicatezza di un “corpo” giovane, per verificarne la forza vitale.

Specchio e misura di questa verifica è da sempre la relazione con il pubblico. Un pubblico che, in occasione di un appuntamento di “festa” veste quasi sempre un abito nuovo. E si sente investito del ruolo di coprotagonista di un evento “speciale”.

È questo, a mio parere, il nucleo segreto della festa. Consentire a pubblico e artisti di condividere l’emozione della scoperta. La stanza dei giochi. Sbirciare insieme sul retro, cogliere l’opera nel suo farsi e non solo l’opera fatta. Il lusso di un viaggio che privilegia l’attraversamento al traguardo. Quell’energia dell’errore che dà il titolo a un saggio-poema di Viktor Šklovskij — illuminante. Del resto, cuore della festa è anche il divertimento, e questa parola ci racconta, nella sua essenza, una vocazione vagabonda: l’andare altrove, “divertere”, appunto. Ma come si traduce tutto questo, nel fare? Non solo la consuetudine contemporanea degli incontri con gli artisti e gli autori. Non solo laboratori e dibattiti ma anche la proposta, per il pubblico, di una visione creativa plurale. Non si può fare cinema col cinema, poesia con la poesia, pittura con la pittura amava dire Carmelo Bene, citando Landolfi. Bisogna “fare altro”. Eccedere, sempre. Per centrare meglio il bersaglio. In un tempo come il nostro in cui la politica affronta una crisi organica, percepisco con sempre maggiore chiarezza quanto la parola dell’arte e dell’invenzione siano politiche, e costituiscano un valore essenziale. Ma negli ultimi cinque sei anni, i bilanci dei festival italiani si sono via via impoveriti: gli enti locali non hanno fondi sufficienti, il ministero privilegia spesso realtà già affermate con il rischio di far scivolare nell’ombra le nuove realtà. Si naviga spesso a vista. Pochi giorni fa ero seduta sulle gradinate del teatro greco di Siracusa mentre il sole tramontava dietro le nostre spalle e il coro e i personaggi dell’Eracle di Euripide facevano il loro ingresso in processione, fieri e divertiti, al ritmo dei tamburi. Parodos. In quel luogo ho provato l’emozione potente di sentirmi parte. La comunità del pubblico che si specchia in una comunità più raccolta e addestrata al racconto. Ho sentito il desiderio prepotente di essere in scena, in quello spazio bianco e circolare, e insieme l’emozione irriferibile del testimone chiamato a una partecipazione attiva. I cittadini di Atene si raccoglievano ogni anno nel teatro per il “festival”, certi di ritrovare sé stessi nelle storie, negli artisti, nel canto. Venivano pagati (sì, proprio così!) per godere di un periodo rituale dedicato al teatro e al divertimento. Facciamo un bel respiro e guardiamo al presente. Se da una parte la percezione della festa e dell’offerta artistica si è profondamente trasformata possiamo però contare dall’altra sulla permanenza di un rito che ci interroga ancora, dopo più di duemila anni, e che produce bellezza, lavoro, poesia. Il vento che a Siracusa solleva le vesti del coro sulla scena è lo stesso che piega i rami degli alberi che fanno da cornice al nostro sguardo. È lo stesso che spettina i capelli di noi, pubblico. Torniamo a immaginare il presente nei luoghi della festa, del rito rinnovato. Diamo fiducia alla visione dell’arte, che quando è autentica è sempre visione politica della realtà.